Se fossi un troiano, sarei Cassandra. Chi se ne frega degli eroi esagitati con tutte le loro fisime da Dei convinti che ostentano sapere, volere e tenacia? Sai che noia! Io voglio la resa davanti all’evidenza. Il miracolo senza cui non si puo’ stare. Io voglio un altare di pietra e pelli di bestie scannate. Conciate. E grezza, la lana, voglio intorno al collo. Voglio i velli e i confini del non ritorno. Voglio crescere come l’edera sui muri, voglio improvvisamente comparire. Come la bellezza sa fare, come tutti fingono di capire. Hai davanti quattro carte questa notte, ognuna e’ un destino. Ci sono quattro tarli diversi, c’e’ il fuoco del camino e Cassandra si piega in avanti e sorride allungando la mano. Prende dal tavolo un foglio di carta e i colori, e saluta con lo sguardo distratto. S’affaccia sospesa sul pozzo, infinito. Socchiude le labbra, non ha piu’ saliva. E qualcosa le parla, e’ una voce, sicuro, ma bisognerebbe provare. Qualcuno crede che attinga, mentre lei strilla, perche’ e’ la sua stessa vita a farle cosi’ tanto male. E nessuno la stima. Nessuno le dà retta. Nessuno le bacia la bocca rossa come la terra. Nessuno la trapassa senza lasciare impressioni, niente l’attraversa abbastanza in fretta. Cassandra ha gli occhi svelti che accolgono il tempo, e la neve e la legna e i turbini grigi sulla sciarpa, prima ancora che arrivi l’inverno.

Leave me alone, Cassandra


(immagine di copertina: Francesca Anita Modotti)

sabato 25 febbraio 2012

MERCURIO


L'allegria dei prezzi non mi coinvolge affatto. E' un carnevale straniero, una familiarità con uova e arance che non mi appartiene. Al mercato, da piccolo, facevo finta di essere un guerriero, e tutto tornava. Gli sguardi mi attraversavano come i raggi cosmici, mi facevano sussultare, e io sapevo. Sapevo che il salumiere voleva qualcosa da me, e che non era il ripieno delle tasche. Sapevo che il macellaio voleva qualcosa da mia madre, e che non era il cuoio della borsa. E sapevo che tutti volevano qualcosa da mio padre, e che non era altro se non la vita sua messa in busta-paga. Anche dal cielo mi piovevano addosso sguardi, da piccolo. Malattia recondita, la mia, o premonizione. Perché gli occhi dei satelliti sono spie di spilli culminanti nello spazio sovrastante, e a un bambino sembra naturale come non tutto si esaurisca in ciò che i grandi sanno chiamare, o vogliono guardare, o a cui desiderano assegnare un nome. Le paure sono un gioco facile per i bambini e un rifiuto serio per gli adulti. Per un bambino, la paura è un normale costume, giustificato, pari a quello di andare nudi per un prato. O al mare. Provateci adesso a tirar fuori il pisello e correre in mezzo ai bagnanti! Chi s'è arrischiato a farlo è finito in galera o peggio in manicomio. Un tipo addirittura c'è rimasto, prima picchiato, in prognosi riservata, e poi in psichiatria, senza remissione di peccato. Un bel servizio, non c'è che dire! Un fesso, quello, convinto d'essere tornato bimbo... Così è uso dei grandi negarla, la paura, manco fosse una tresca illegittima vissuta fuori dal matrimonio, e aspettare che torni il giorno per negarsela ancora, per rinnegare la pelle d'oca, per togliersi il coraggio e dire che non c'è niente da temere, che è tutto sotto controllo. Il controllo, poi, lo si lascia agli altri. A uffici appositi dove un seme di noncuranza possa essere perseguito per legge. Dove una distrazione possa valere come incidente. Dove un vademecum possa realizzarsi in bibbia. E se tutto dovesse andare male, beh, sarà stata la volontà di Dio o la corruzione del politico di turno, no? Mica il fatto che questo teatro ha il senso distorto del considerare la vita quale un trofeo da appendere in salotto, corna d'alce, bergamotto per profumare l'ambiente. Incoerente come pochi quindi fingo di non capire. Mi tappo le orecchie e scorreggio sull'arenile. E a chi mi guarda indico il mio vicino, perché l'aria nella pancia non è mica mia esclusiva. A questo punto, però, vorrei che le donne tornassero a spogliarsi davanti a me senza segnalibro. Non sono un maniaco del sesso, ben inteso. E' che dopo qualche anno il desiderio s'incentra su forme semplici. O inesistenti. Vorrei una femmina da annusare, ecco. Una coi fianchi larghi, magari. Una presa di ferro per strofinarci il pensiero. Ma ormai è conclamato: vivere da psicopatico mi ha insegnato molto sulle cose che navigano nel fondo dell'oceano. Sono creature affascinanti, senza denti. Che te ne fai dei denti lì dove la consistenza somiglia più al liquido che al sale grosso? E' tutto disciolto. Tutto in soluzione. Tutto in divenire, un problema che non si riesce a capire, figuriamoci a risolvere. E ho le gambe molli, come Stefania, coi seni rifatti, quando a un certo punto della gita diceva, riposiamoci all'ombra del canneto. O quando dentro Roma, col sole a picco, premeva a che si noleggiasse una carriola, una macchina, una biga. Stefania mi faceva pena, dall'alto dei suoi 45 anni. Ancora appresso ai ragazzini, come dire, li sento ma non li contoE faccio finta che non passino, che mi restino, che avanzando mi incontrino e mi scontino in danni. Rivestivo un ruolo preciso con lei. Un tot all'ora, pagamento in contanti, sesso a cottimo, lavoro a chiamata. Una anticipazione di come è adesso faticare, ma senza pianto del precariato. senza salario, senza onorario, senza parcella. Era proprio questo, un tot a orgasmo, o a chiacchierata, o a finestrella sfondata. Claudia invece mi pagava a notte. Mi offriva il pasto, da bere, mi ballava nuda davanti e poi con un certo clamore si faceva massaggiare. Mugolava più delle mie mani sui suoi muscoli di donna attempata ma in forma che poi nel letto, mentre sgorgava come il Tevere dalle zolfare. Tutto questo sapeva un po' di Inferno, e intanto mi scorrevano tra le dita i grani d'oro, e non sapevo che fine facessero. Li vedevo passare, solamente passare. Leggevo anche le carte, imbrogliando sui tarocchi, e qualcuno mi malediceva persino. Così integrai con altri giochi, e mi misi a seguire linee nelle mani e strade misteriose, sofisticate, esotiche, clandestine, tra gazze bicolore e molossoidi feroci senza orecchie, tra razze divergenti con zanne aguzze di felini e di più feroci umani. Affamati tutti, azzannato io. Stefania e Claudia non si conoscevano, ma era l'eccezione. Le altre signore avevano meno voglia di impersonare le padrone e si passavano consigli sulle compagnie da frequentare. Non si facevano del male, almeno a guardare così, da fuori. Non erano gelose di un numero di telefono, e nemmeno di una prestazione. E neanche di un prestito, che alle volte vale meno di un dito mentre compone il codice su una tastiera, con tanto di anello e ladro alla finestra. Rubare non mi era mai venuto bene, finché non capii che si rubano il tempo, la vita, gli anni e l'ingenuità alla stessa maniera. Che si sottrae miseria come ci si sottrae a uno sguardo, come si sfilano le calze e la giarrettiera. Con Carmina la difficoltà era proprio quella. Perché se Stefania e Claudia erano belle donne, lei era una mozzarella fabbricata ad Afragola con chissà quanta diossina. E pretendeva persino di essere figa nei sentimenti e nella carne, a suon di quattrini. Lei non mi fece mai una volta pena. Perché aveva chiaro dentro sé che la sua bellezza era nel portafogli, nel mio bisogno di aiutare il fratello carcerato, nel mio bisogno di comperare un gelato ai bambini. Nel mio essere incapace a fare figli per poi camparli lavorando in miniera. La paura vera è questa, care mie, la paura esiste. E' qui, mi attraversa ancora gli occhi, mi piove addosso da miglia e miglia di colonne d'aria. Clienti, padrone, matrone? Sfruttatrici, protettrici, signore? Ma chi vi conosce! Io scopo a sfregio da che son ragazzino. Cosa volete che sia farvi da parte, passarvi da parte a parte, infilarvi cotone nel culo come foste condannate alla sedia elettrica? Carezzarvi, se vi piace? E dire che avreste potuto chiedere, semplicemente chiedere, e forse non avrei saputo cosa altro darvi. Invece amavate pagare, e pagare caro. E io lì a mani tese, a fare della vostra polvere il mio tesoro, il mio forziere, la mia galera. E tutti sapevano, e nessuno gioiva. Una volta venne in studio un commercialista. Mi chiese di un altro mio cliente, e non potei parlare. Non che tra i cartomanti esista un codice professionale, un albo dal quale si possa venire espulsi... Ma chiedetelo pure a un calciatore, se preferisce il cartellino rosso dell'arbitro o una gamba tesa che gli insanguini lo stinco e gli rovini il bel viso da star del cinema e della pubblicità. Chiedetelo pure a un calciatore, quanto vale l'integrità contro la minaccia di una cricca d'esseri infami, realisti, pragmatici. Cosa c'è di più pragmatico di un capraro con la lupara? Cosa c'è di più cinico di uno sbirro con lo sfollagente? Cosa c'è di più demente? Insomma, venne questo commercialista, che aveva qualche problema col magistrato, altro mio cliente. Altro assistito, per meglio dire. E io ci credei eccome che di problemi col tipo ne doveva avere... Un magistrato appeso alle mie labbra, che si scurisce in volto quando gli parlo degli intrighi del palazzo del potere, dei colleghi che gli fanno le scarpe... un magistrato che attende la lettura di certo mercurio, di certe scollature, che pende dal ponte del Destino... certo che problemi ne produce a chi gli è casualmente sottoposto! Ma non dissi nulla al malcapitato, perché in fondo da commercialista qualche danno anche lui poteva farlo. E pochi giorni dopo mi ritrovai in prima pagina sul quotidiano regionale, additato a trozkista, e peggio ancora, a criminale. A manovratore oscuro con ingerenze in chissà quali campi. E venne fuori che facevo del mio meglio per ingraziarmi i servigi di alcuni potenti, che leggevo il futuro plagiando le menti e che a tempo perso scopavo anche le signore, perché quelle mi foraggiavano, ed ero un vero artista nel farle godere, nel vendermi alle piazze come meglio riuscivo. Venne fuori l'assurdo, mentre io mi arrabattavo come meglio sapevo, e che quello, il commercialista, era solo l'amico di un giornalista. Qualcuno che mi avevano tirato dietro per farmi passare da comunista, da stregone, da Rasputin della situazione. Perché come ti metti ti metti, nei confronti del potere, hai sempre e solo da perderci, da piangere, da subire. Ecco, subire non è il mio forte, e Carmina lo sapeva. Così ragionai sui furti, me ne feci una ragione, e la rapinai. Sì, la rapinai davvero. Accadde semplicemente questo: le dissi che l'amavo, colto da ispirazione, dopo aver dato corso al pianto. E lei? Lei con la sua melanina assente, con la sua diossina a grani grossi scricchiolanti nella pasta di mozzarella campana che le ricopriva le ossa, mi ripagò per questa menzogna. Con la resa, con la distrazione. Mi disse che nulla avrebbe mai sperato di meglio per il suo cuore se non un essere disastrato quanto me che le offrisse il sole. E dire che aveva due figli. Due figli e un marito direttore. E dire che i figli erano grandi, cresciuti e pasciuti, e che davvero tante cure le avevano dovuto suggerire in tutto quel tempo. La casa di Carmina era un deserto di cioccolato, un belletto ludico, una bara di bambola con in bella mostra ogni ben d'argento. E d'oro. Quella volta, mentre dormiva nel suo materasso confondendosi addirittura, mi alzai, aprii i cassetti, raccattai il contante e sparii nella notte. Fui tentato anche di svegliarla, di picchiarla, perché tante volte la gente ti coccola a gratis e tante altre merita persino una raddrizzata. Ma certo, optai per fare come le mie maestre puttane, la schiera a cui mi illudo di appartenere. Presi da parte il delirio e mi consigliai di sparire. Sparii in una nuvola di tabacco, sopra un treno affollato, e viaggiai per 25 ore, tutto di un fiato. In altro posto davvero forse avrei potuto anche rinunciare a essere come ero. Non più un giovane autostoppista, non più un uomo a ore, non più Carunchio, non più Mercurio. Ma il carnevale a oggi resta un trionfo di paesanità che ti appartiene come tu appartieni al dito. Non importa essere o no pentito. Non importa essere o no ricercato. Non vuol dire niente, se non che tutto il mondo è un mercato, e ogni occhio ti penetra e ti fruga per ciò che cerca. E ti calcola e ti valuta, e ti manda in riserva come se nulla lo riguardasse. Come se le arance che si tirano a Ivrea fossero diverse dalle code dei pavoni di Rio. Come se, un bambino, non valesse una donna o un operaio, in questa massa informe di sistema che disegna il suo Destino.

6 commenti:

  1. certo che attè, caro carunchio e/o mercurio, è meglio non conoscerti che averti come nemico!
    emmeno male che di secondo nome non mi chiamo nè stefania nè claudia e nemmeno carmina! ^_^

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    1. CARUNCCCCCHIO!!!!!! :) e' che l'altra sera abbiamo guardato un film con Giannini, e m'e' tornato in mente quel film con lui e la Melato. non ho resistito! (da che mondo e' mondo i cartomanti e' meglio evitarli. ed anche i Rasputin, non credi? certo che un Rasputin occupa uno spazio di sistema. finche' ne produciamo, di quelli, come fai ad evitare chi li va ad occupare?) ps sono felice per te che non ti chiami Carmina, soprattutto... :))))

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  2. Pex, ma sei tu? PAURA!!! Mon dieu.
    A proposito, mi piace molto la prima parte, quella sulla paura.
    Io ho tanta, tanta paura. Ma già lo sai. :-) sucre

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  3. Brutta cosa, gli adulti-adulterati... Io per fortuna sono rimasto bambino (però il pisello in spiaggia me lo tengo nel costume, non si sa mai... :D)
    Abbiamo in comune anche una Carmina: in un altro mio demenziale Tg che proporrò fra qualche tempo la giornalista si chiama Carmina Burazzi... :-))))

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