Se fossi un troiano, sarei Cassandra. Chi se ne frega degli eroi esagitati con tutte le loro fisime da Dei convinti che ostentano sapere, volere e tenacia? Sai che noia! Io voglio la resa davanti all’evidenza. Il miracolo senza cui non si puo’ stare. Io voglio un altare di pietra e pelli di bestie scannate. Conciate. E grezza, la lana, voglio intorno al collo. Voglio i velli e i confini del non ritorno. Voglio crescere come l’edera sui muri, voglio improvvisamente comparire. Come la bellezza sa fare, come tutti fingono di capire. Hai davanti quattro carte questa notte, ognuna e’ un destino. Ci sono quattro tarli diversi, c’e’ il fuoco del camino e Cassandra si piega in avanti e sorride allungando la mano. Prende dal tavolo un foglio di carta e i colori, e saluta con lo sguardo distratto. S’affaccia sospesa sul pozzo, infinito. Socchiude le labbra, non ha piu’ saliva. E qualcosa le parla, e’ una voce, sicuro, ma bisognerebbe provare. Qualcuno crede che attinga, mentre lei strilla, perche’ e’ la sua stessa vita a farle cosi’ tanto male. E nessuno la stima. Nessuno le dà retta. Nessuno le bacia la bocca rossa come la terra. Nessuno la trapassa senza lasciare impressioni, niente l’attraversa abbastanza in fretta. Cassandra ha gli occhi svelti che accolgono il tempo, e la neve e la legna e i turbini grigi sulla sciarpa, prima ancora che arrivi l’inverno.

Leave me alone, Cassandra


(immagine di copertina: Francesca Anita Modotti)

mercoledì 25 gennaio 2012

ANNA - QUESTIONI DI CUORE




Le questioni di cuore per me sono altre, non c'è' molto da dire. Mi parli di nocciole e miele, di odori e teatro, di risate all'unisono e pensieri concordi. Di palpitazioni. E io penso alle crisi cardiache che mi costringono al crollo quando azzardo un acuto al microfono. Ho ridotto i caffè', smesso le sigarette. Non bevo neanche più' superalcolici poiché a un certo punto sembrava il cuore mio una sorta di spugna sfibrata e gonfia, a dir poco purulenta. A ogni sorso di whisky sentivo le pareti del muscolo sgranarsi, sfaldarsi e gonfiarsi. Ecco, tu mi parli di uccelletti che cinguettano mentre te e il tuo antico fidanzato camminavate, mano nella mano, sul prato in montagna. E dici.. così sono io nelle faccende di cuore. Ripeto dentro di me... faccende-di-cuore-faccende-di-cuore-faccende-di-cuore. E mi viene in mente l'angoscia delle coronarie che si stringono. Una morsa gelida e dolorosa. Un maglio che t'afferra. Le questioni di cuore, per me, rispondo tacendo, sono fatti che ti fanno sentire come un micetto. Uno di quelli ignari, appena usciti dal grembo di mamma gatta. Sgambettano incerti sul pavimento, poi un'ombra li investe e un uomo li afferra. Stanno tutti in una mano. E vengono rapiti verso un alto ignoto, senza che possano capire nemmeno cosa stia succedendo. Esito. Vorrei dire, controbattere, interrompere il tuo soliloquio auto celebrativo nel quale compari il tuo nuovo amante a quel primo amore lontano. E non capisci, mi dico, che stai solo paragonando i tuoi 30 anni all'adolescenza. Gli uomini primitivi erano molto vecchi già' alla 27esima primavera. Ecco, cosa vuoi comparare? Ti senti giovane, ma avresti già dovuto crepare da almeno 36 mesi. Te lo direi se fossi Anna, e come a lei te lo sto dicendo, in effetti. Io Anna non la paragono a nessuna. So bene che un fatto accade una volta, e poi non si ripete mai più uguale. E tutto quanto che ti sembra, al contrario, identico, o simile, o anche solo accostabile a ciò che fu, è unicamente la manifestazione del male che ti tarla la mente.
Nemmeno gli attacchi cardiaci sono paragonabili tra loro. Neanche i silenzi che uso stenderci sopra come si fa col velo pietoso su certe figure di merda. La prima stretta al cuore l'ho avuta il mese scorso. Anche se in verità già' 15 anni fa provai l'ebbrezza di uno scompenso, sotto la doccia, dopo due ore di allenamento. All'epoca cercavo ancora di vivere un po' oltre i confini consentiti dal fisico, e bevevo, e fumavo, e mi drogavo e mi allenavo. Quella volta sotto la doccia passai dal getto d'acqua bollente a quello dell'acqua ghiacciata. Mi sentii semplicemente tirare il braccio sinistro e capii che non era il mio, quel tipo di atteggiamento nei confronti di madama l'igiene. In verità anche la doccia, in sé, non è un costume che mi sia particolarmente caro. In effetti mi concedo più piacevolmente al vino che all'acqua. Comunque dopo il primo episodio ridussi il numero delle docce, perché alla fine tra tutti i vizi era quello che procurava minore libidine. E per anni del mio cuore non sentii più nemmeno parlare. Il mese scorso invece ero davanti al microfono, molto emozionato. Stavamo suonando bene, e io avevo appena scoperto di avere una voce utile a cantare. Più utile di quanto avessi mai pensato o sperimentato. Così ho preparato l'acuto sull'inciso di una canzone che si chiama Fiamma... e sono crollato. Cioè, non che mi sia mancata la forza nelle gambe, ma ho sentito talmente tanto forte una frustata nel petto, da sbiancare e sedermi istantaneamente.
L'India non se ne è nemmeno accorta. E dire che è lei l'unica che mi osserva, da dietro quelle tastiere numerose e rumorose. E' la sola che alla fine si interessa realmente a cosa mi accade. Penso sia anche un fatto di abitudine. Sono oltre vent'anni che facciamo cose insieme. Eppure nemmeno lei Anna l'ha conosciuta. Ecco nemmeno a lei la presentai.
Ci sono esperienze così intime, solitarie, nella vita, che dopo un po' di tempo ti chiedi persino se tu le abbia realmente vissute, o se siano esse infine solo un fulgido frutto di qualche tua fantasia.
Quando fallì il mio matrimonio ero ancora davvero troppo giovane per capire da che parte il colpo mi fosse arrivato. Accadde, una sera, che mia moglie venne col test di gravidanza in mano, uscendo dalla stanza da bagno. Io stavo davanti al camino, e sognavo. Mi sorrise e mi disse che avremmo potuto da allora in poi fumare solo purini d'erba, quelli anche a pieni polmoni, ma la nicotina no, dato che ai bambini nella pancia la nicotina fa male. E io sorrisi perché sorrideva anche lei.
Forse non avrei mai pensato ad avere un bambino se non fosse capitato quel fatto fortuito, che dal principio mi parve essere manna dal cielo, la via buona indicata da un qualche insperato dio disceso a lacerare il velo. Ma la fortuna e la sorte sono come quei truffatori che mettono il banchetto abusivo al margine del mercato di via Sagno. Mescolano le tre carte, e ciò che ti pare guadagno un momento dopo si rivela una trappola. Pensi, ecco, adesso so come portare mia moglie a cena nel giorno del nostro anniversario... e un attimo dopo non hai nemmeno più i soldi per pagare l'affitto del mese. Tuttavia, quando mi capitò di perdere al gioco tutti i soldi che sembravamo aver così bravamente accumulato a pezzi di 500 e mille lire, mia moglie non ne fu neanche turbata. Era prima, molto prima che restasse incinta. Era forse il primo semestre della nostra vita coniugale a Roma. Tutto nuovo. Compreso il sorriso di quella donna un po' meno giovane di me, così entusiasta, così sicura. Così vigile sui numeri che il nostro destino pareva volerci donare. E me ne innamorai quando sorrise, come me ne innamoravo ogni volta. Mi abbracciò e mi consolò proponendomi un nuovo salvadanaio e un paio di nuovi traslochi da fare per tirare su i soldi che mi avevano rubato.
Poi venne il primo inverno, e poi ancora il secondo. E ci togliemmo da Roma, che ci aveva stancati entrambi. Affittammo una casa in pietra, in un paesello in montagna, e lì, ridotte le necessità al lumicino, conducevamo la nostra esistenza da quasi eremiti, con la speranza che nulla venisse a turbare l'orto botanico nel quale ci piaceva vegetare. E poi arrivò la legna del camino, quella ammuffita, e il fumo nero che scappava fuori e noi che ne ridevamo. Ridevamo della nostra situazione da scombinati, da infanti fuggiti di casa. Da bambini chiusi in camera che fanno giochi costruiti col materiale dei sogni, provocando incredulità e tenerezza nelle facce dei parenti.
E alla fine ci fu quella sera, quella del test di gravidanza. Quando mia moglie prese a sorridere in modo strano, arrendevole. E io appresso a lei. A quel punto tutto mi sembrò chiaro. Una autostrada spaccò il cielo, e qualcuno mi disse all'orecchio... adesso sì che sei ciò che davvero devi essere. Al terzo mese, come un fulmine a ciel sereno, dal ventre di mia moglie usci del sangue. Me la caricai sulle braccia e corsi, dio come corsi, lungo la salita che s'arrampicava fino alla cima del paese, in piena notte. Lei era bianca in volto, e ancora sorrideva. La adagiai nella macchina, una vecchia Renault rossa e ingrigita dall'incuria, e partimmo a motore sgranato per la strada dissestata, verso il primo ospedale disponibile. Dopo appena tre chilometri il motore sgranato si disintegrò del tutto, e la macchina ebbe due sussulti. Due sussulti e una intensa bianca fumata dal cofano. E si fermò e non ne volle sapere di noi, più niente. Bestemmiai una decina di santi. Ringhiai. Scesi a spingere e raggiunsi il culmine del dosso che avevamo davanti. E la lanciai, sperando di vincere la salita successiva, quella che immetteva al paese, col semplice slancio. Con una semplice lezione di fisica del biennio alla superiori. Quando lo slancio non fu sufficiente che a raggiungere la metà di quell'erta, sempre ringhiando, scesi dal mezzo e abbracciai mia moglie. La sollevai e tenendola stretta, col vento che a turbini di neve mi ghiacciava la sciarpa, ricominciai a correre verso l'ospedale. Passarono tre macchine in mezz'ora, e per mezz'ora e per tre volte, provai a fermarne almeno una. Ma i motivi degli uomini non sono belli da verificare, e nessuno ci portò aiuto. Quando arrivammo al pronto soccorso eravamo due fantasmi. Questo pensai spiando il nostro riflesso nel portone a vetri aperto sul gelo e deserto reparto a pianoterra. Mi sbagliavo. Di fantasma ce n'era solo uno. Da quel momento in poi non ci fu più nessuna possibilità di tornare a sorridere. Ci inseguimmo, come prima ci inseguivamo, ma come nemici, stavolta. Come se abbandonare Roma, come se non fare manutenzione alla macchina, come se ridurre i bisogni, come se sposarsi, come se decidere di non abortire, fossero non vita ma colpe, che ognuno sentiva e cercava di scaricare sull'altro. Ci lasciammo alla metà dell'estate successiva. Io tenni la casa. Lei il fantasma del nostro bambino.
La casa la tenni, è vero. La comperai addirittura. Ma non ci rimasi a vivere. Mi ci rifugiai a periodi per i successivi ventiquattro anni. Era un po' come farsi la tana e poi viaggiare e cacciare, cacciare e viaggiare. Lunghe stagioni di scorribande in cerca di carne per poi tornare. Che mi facesse bene o mi facesse male tornare in quel luogo, davvero non lo sapevo dire. Intanto i giorni si accumulavano sulle pareti, e i viaggi, e i fogli scritti, le foto e le cartoline. I ricordi che raccoglievo nei miei giri da vagabondo condotti appresso a spighe di grano maturo o cieli grigi in stazioni nere, lì dove il vino cartonato era l'unico pass utile a trovare un senso umano al ferro dei binari. Era un po' come negarsi alla morte. Era un po' come colorarsi la vita. Era l'estremo sforzo della volontà, tirato come si tira il colpo al cardellino prima di recarsi dal macellaio a comperare la cena. Io sono un uomo, dicevo. Ma solo per sentito dire sapevo che era così. E nulla mi apparteneva.
Nei giri mi accompagnava alle volte l'India, la mia vecchia cugina impicciona. Alle volte mi accompagnava il vento. Alle volte ero talmente solo da riuscire a sentire l'onda di ciò che sa essere umano. E non c'era nessun dettato, nessun tema, nessuna freccia, nessuna indicazione sul selciato. C'erano vie, c'erano strade, c'era la voglia di andare e niente altro che questo. Mi spinsi dove il limite non è più, dove il senso a fermarsi non c’era. E tuttavia continuai a tornare alla mia casa di montagna, come se ad attendermi ci fosse stato qualcuno ogni sera. Come se, per quanto potessi cercarmi oltre i confini dell'Oriente e della Terra, solo in quel posto qualcosa e qualcuno e me stesso, mi stessero aspettando.
Con la casa parlavo - altri non se ne vedeva quasi mai. Sì, alle volte salivano amici a trovare il pazzo eremita. A drogarsi con me, a bere, a comperare ciò che dai viaggi riportavo. A barattarlo con nocciole e miele. Con candele. Con benzina, addirittura, quando ne avevo bisogno. Con la legna. E di notte mi piaceva, in quei periodi così strani, scendere al villaggio e passeggiare. e contare quante macchine passavano. E quante ancora non avrebbero voluto fermarsi. Così nei miei viaggi facevo, allo stesso modo. Camminavo per lunghi tratti di statale la notte. o sulle provinciali dei luoghi meno conosciuti. Ma solo in inverno. E se dei fari alle spalle ingigantivano la mia ombra, coperto dal cappuccio sorridevo, mi voltavo a tre quarti e alzavo il pollice.
La cosa che meno capii in quel periodo, è come si possa tirare dritto di fronte a un uomo che corre tra il vento gelato con in braccio una donna, e magari fermarsi invece pochi metri più avanti di fianco a un incappucciato ramingo con le mani nelle tasche. Cosa c'è nella testa degli uomini? Cosa c'è nello stomaco? Cosa nelle budella? Cosa cambia in coraggio o incoscienza l'incuria e la solitudine? Le mie mani ringraziavano il materiale di quelli che volevano offrirmene frugandone le viscere, cercandone i resti di umanità penitente tra l'odore acre che ha la pelle quando un coltello incandescente la solca. E nei meandri dell'ignoto cercai a dismisura, e dentro di me anche, e con ogni mezzo. Furono anni seri, da ricercatore indipendente. Furono gli anni in cui la vita sembra un fuoco d'artificio, un terremoto, lava dalla bocca del vulcano. Nessuna previsione utile. Come quando ti fottono la fortezza costata decenni di ruberie con un semplice e improvvisato colpo di mano.
Adesso, a doverlo raccontare, direi che fu più o meno in dicembre, e che i passi, muovendoli sull'asfalto, mi rimandavano poche volte l'eco, e più segnatamente si lasciavano intuire nei rimbombi. Nessuna macchina mi puntava addosso i fari da due ore, ed ero in Umbria, anche se non so precisamente in quale delle sue parti. Non faceva tantissimo freddo in quell'anno clemente.
E di strada ne avevo fatta abbastanza, e non sapevo bene a che punto fossi del mio viaggio. A doverlo raccontare, adesso, direi che mi accorsi di qualcosa già prima di saperne parlare a me stesso. Che a un certo punto fu impossibile negarmelo, perché il rumore degli anfibi al suolo si sdoppiò e a ogni passo sentivo due volte il battito affrontare la polvere. Anche il cuore sentivo, ed ero sereno. Avevo smesso le docce, come dicevo in principio, e la regolarità era tornata a farmi da scudo. E anche il cuore, a un certo punto, cominciò a battermi nelle orecchie raddoppiando il tempo. Un colpo nel petto, uno nel vento. Fu una stella a distrarmi dai pensieri assenti. una stella luminosa sull'orizzonte. E il rumore dei passi in sincrono coi miei... divenne un'ombra. E l'ombra una sagoma. Un cappuccio, una felpa, due mani nelle tasche. Mi procedeva di fronte, con gli occhi bassi. Non so dire se si fosse accorta di me prima che io di lei, non glielo chiesi mai. So che ci guardammo da sotto il cappuccio, e che poi i cappucci, quando fummo a due passi, fermi, calarono dietro le spalle. E che era buio, e nel buio vidi i suoi spilli brillare di rosso. Come fosse un demone. Come fosse l'angelo scacciato dal cielo. Era giovane, molto giovane, e non sapeva neanche lei bene dove andare. Mi sorrise, da un altro mondo mi sorrise. Perché siamo tutti un mondo a parte, un pianeta lontano da cui ci affacciamo a guardare.
Anna aveva 18 anni all'epoca, praticamente una bambina. Passava le giornate sul tetto della mia casa di pietra, a spiare la valle. Di sera salivo su dov'era, le portavo la cena. E in silenzio guardavamo le macchine scorrere per le vie tortuose, le osservavamo arrancare. Non parlavamo, lei di voce non ne aveva. Aspettavo che mi indicasse qualcosa. Un punto, una striscia di terra, un lontanissimo cantiere. Per tutto il periodo che rimase con me, fu la padrona dei miei pensieri. I gesti davano seguito ai gesti. La memoria arrivava da ogni oggi fino al massimo di un paio di ieri. Facevamo l'amore in silenzio, come gatti afoni o come selvaggi in assenza di ossigeno. I suoni non esistevano, semplicemente. La sua sordità era la mia. 
Capitava di guardarci nello specchio, al momento dell'amplesso, con i volti sfigurati. E dalle bocche larghe l'aria passava e cadeva, come fiato blu gelato al contatto con l'universo. Non più gas, non vapore, ma solo liquido, incapace a raggiungere l'orecchio. Aveva poca carne sulle ossa Anna, poca carne sopra al viso. E io l'amavo, come si ama il peso sopra al cuore quando è l'unica cosa che ti faccia sentire vivo.
Svanì come la rondine alla fine dell'estate, dopo un tempo incompleto e non facile da limitare. E neanche da ricordare. Sparì come era arrivata, dal niente e sopra il nulla. Negli occhi di mia moglie, quando venne a cercarmi coi fogli del divorzio da firmare. Erano passati forse tre secoli da che se ne era andata, e mi aveva talmente rimosso da non trovare igienico nemmeno separarsi da me per esigenze legali, o almeno così avevo considerato. Sembrò assurdo mi cercasse all'improvviso, è vero, ma non fui in grado di scindere la necessità dal pretesto. Sentii nella sua voce disturbata un tremito, al telefono. Come se dal cuore le mancasse un pezzo. E così ci demmo appuntamento, e io non seppi guardarla in faccia. Avevo paura di trovarci ancora quel sorriso, quello antico che mi aveva acceso, in cui mi ero smarrito. La spiai nello specchio all'ingresso, quello intorno a cui avevo accumulato i giorni e i ricordi. Entrare e poi uscire, la spiai. E notai la differenza. La differenza nel broncio e poi nel volto disteso, la differenza tra il prima e il dopo. Il cambiamento di chi ha perso il mondo, quando s'è di nuovo arricchito.
Sulle scale, partendo, di colpo mia moglie si voltò per salutare. Mi fissò negli occhi, mi sorrise. L'ultima volta che vidi Anna stava proprio lì dentro, cappuccio calato, mani in tasca, di spalle nel riflesso dell'iride.
E adesso tu mi parli di questioni di cuore, di nocciole e miele. Mi indichi il verso che prendono le cose e mi chiedi se ci sono più amori possibili nella vita, oppure se c'è un solo posto a sedere. Un unico approdo, un'unica spiaggia. E mi arresti il respiro amica mia, perché non so nulla degli altri pianeti. So solo dire quand'è che il vento libera dalle nuvole il sole, o quando soffia forte e tutto ghiaccia.

10 commenti:

  1. hai sottolineato alla perfezione (senza volerlo) l'autentico, spontaneo sentimento dell'amore: poco, nullo suono

    RispondiElimina
    Risposte
    1. la spontaneita' e' illibata. non soggiace a meccanismi consci o impropriamente forse anche detti volontari. ma volendo pensare, penserei che l'autenticazione del sentimento d'amore e' sempre e solo risolvibile in una autocertificazione... :)

      Elimina
    2. odio la burocrazia e quindi mi sembra il più riuscito sistema per vivere o sopravvivere a se stessi. Gli altri (i dirimpettai, i destinatari del nostro sentimento) potrebbero non accettarla o non considerarla sufficiente come documentazione, andar via o mandarci via. I fantasmi, del resto, potrebbero costituire presenze/assenze più gradevoli ;)

      Elimina
    3. evasione, petrolio-muso. e fuoco alle scartoffie. come si diceva dall'altra parte in fatto di dichiarazioni, meno uno ne fa, meno sara' ridicolo quando dovra' ritrattare... :) ps chi chiede documentazione, e' gia' un fantasma.

      Elimina
  2. ;) che dire? nulla… è un piacere dis-correre con te!

    RispondiElimina
    Risposte
    1. il piacere e' reciproco, muso-petrolio. e a Cassandra sembri quasi una cugina.

      Elimina
  3. parentele acquisite migliori delle originali…

    RispondiElimina
  4. se non altro se ne puo' dire che le abbiamo scelte. dovendosene un giorno lamentare, almeno non si dovrebbe imprecare contro il cielo. e non e' poco!

    RispondiElimina