Le
questioni di cuore per me sono altre, non c'è' molto da dire. Mi parli di
nocciole e miele, di odori e teatro, di risate all'unisono e pensieri concordi.
Di palpitazioni. E io penso alle crisi cardiache che mi costringono al crollo
quando azzardo un acuto al microfono. Ho ridotto i caffè', smesso le sigarette.
Non bevo neanche più' superalcolici poiché a un certo punto sembrava il cuore
mio una sorta di spugna sfibrata e gonfia, a dir poco purulenta. A ogni sorso
di whisky sentivo le pareti del muscolo sgranarsi, sfaldarsi e gonfiarsi. Ecco,
tu mi parli di uccelletti che cinguettano mentre te e il tuo antico fidanzato
camminavate, mano nella mano, sul prato in montagna. E dici.. così sono
io nelle faccende di cuore. Ripeto dentro di me...
faccende-di-cuore-faccende-di-cuore-faccende-di-cuore. E mi viene in mente
l'angoscia delle coronarie che si stringono. Una morsa gelida e dolorosa. Un
maglio che t'afferra. Le questioni di cuore, per me, rispondo tacendo, sono
fatti che ti fanno sentire come un micetto. Uno di quelli ignari, appena usciti
dal grembo di mamma gatta. Sgambettano incerti sul pavimento, poi un'ombra li
investe e un uomo li afferra. Stanno tutti in una mano. E vengono rapiti verso
un alto ignoto, senza che possano capire nemmeno cosa stia succedendo.
Esito. Vorrei dire, controbattere, interrompere il tuo soliloquio auto
celebrativo nel quale compari il tuo nuovo amante a quel primo amore lontano. E
non capisci, mi dico, che stai solo paragonando i tuoi 30 anni
all'adolescenza. Gli uomini primitivi erano molto vecchi già' alla 27esima
primavera. Ecco, cosa vuoi comparare? Ti senti giovane, ma avresti già dovuto
crepare da almeno 36 mesi. Te lo direi se fossi Anna, e come a lei te lo sto
dicendo, in effetti. Io Anna non la paragono a nessuna. So bene che un fatto
accade una volta, e poi non si ripete mai più uguale. E tutto quanto che ti
sembra, al contrario, identico, o simile, o anche solo accostabile a ciò che
fu, è unicamente la manifestazione del male che ti tarla la mente.
Nemmeno gli
attacchi cardiaci sono paragonabili tra loro. Neanche i silenzi che uso
stenderci sopra come si fa col velo pietoso su certe figure di merda. La prima
stretta al cuore l'ho avuta il mese scorso. Anche se in verità già' 15 anni fa
provai l'ebbrezza di uno scompenso, sotto la doccia, dopo due ore di
allenamento. All'epoca cercavo ancora di vivere un po' oltre i confini
consentiti dal fisico, e bevevo, e fumavo, e mi drogavo e mi allenavo. Quella
volta sotto la doccia passai dal getto d'acqua bollente a quello dell'acqua
ghiacciata. Mi sentii semplicemente tirare il braccio sinistro e capii che non
era il mio, quel tipo di atteggiamento nei confronti di madama l'igiene.
In verità anche la doccia, in sé, non è un costume che mi sia particolarmente
caro. In effetti mi concedo più piacevolmente al vino che all'acqua. Comunque
dopo il primo episodio ridussi il numero delle docce, perché alla fine tra
tutti i vizi era quello che procurava minore libidine. E per anni del mio cuore
non sentii più nemmeno parlare. Il mese scorso invece ero davanti al microfono,
molto emozionato. Stavamo suonando bene, e io avevo appena scoperto di avere
una voce utile a cantare. Più utile di quanto avessi mai pensato o
sperimentato. Così ho preparato l'acuto sull'inciso di una canzone che si
chiama Fiamma... e sono crollato. Cioè, non che mi sia mancata la forza nelle
gambe, ma ho sentito talmente tanto forte una frustata nel petto, da sbiancare
e sedermi istantaneamente.
L'India non
se ne è nemmeno accorta. E dire che è lei l'unica che mi osserva, da dietro
quelle tastiere numerose e rumorose. E' la sola che alla fine si interessa
realmente a cosa mi accade. Penso sia anche un fatto di abitudine. Sono oltre
vent'anni che facciamo cose insieme. Eppure nemmeno lei Anna l'ha conosciuta.
Ecco nemmeno a lei la presentai.
Ci sono
esperienze così intime, solitarie, nella vita, che dopo un po' di tempo ti
chiedi persino se tu le abbia realmente vissute, o se siano esse infine solo un
fulgido frutto di qualche tua fantasia.
Quando fallì
il mio matrimonio ero ancora davvero troppo giovane per capire da che parte il
colpo mi fosse arrivato. Accadde, una sera, che mia moglie venne col test di
gravidanza in mano, uscendo dalla stanza da bagno. Io stavo davanti al camino,
e sognavo. Mi sorrise e mi disse che avremmo potuto da allora in poi fumare
solo purini d'erba, quelli anche a pieni polmoni, ma la nicotina no, dato che
ai bambini nella pancia la nicotina fa male. E io sorrisi perché sorrideva
anche lei.
Forse non
avrei mai pensato ad avere un bambino se non fosse capitato quel fatto
fortuito, che dal principio mi parve essere manna dal cielo, la via buona
indicata da un qualche insperato dio disceso a lacerare il velo. Ma la
fortuna e la sorte sono come quei truffatori che mettono il banchetto abusivo
al margine del mercato di via Sagno. Mescolano le tre carte, e ciò che ti pare
guadagno un momento dopo si rivela una trappola. Pensi, ecco, adesso so
come portare mia moglie a cena nel giorno del nostro anniversario... e un
attimo dopo non hai nemmeno più i soldi per pagare l'affitto del mese.
Tuttavia, quando mi capitò di perdere al gioco tutti i soldi che sembravamo
aver così bravamente accumulato a pezzi di 500 e mille lire, mia moglie non ne
fu neanche turbata. Era prima, molto prima che restasse incinta. Era forse il
primo semestre della nostra vita coniugale a Roma. Tutto nuovo. Compreso il
sorriso di quella donna un po' meno giovane di me, così entusiasta, così
sicura. Così vigile sui numeri che il nostro destino pareva volerci donare. E
me ne innamorai quando sorrise, come me ne innamoravo ogni volta.
Mi abbracciò e mi consolò proponendomi un nuovo salvadanaio e un paio di
nuovi traslochi da fare per tirare su i soldi che mi avevano rubato.
Poi venne
il primo inverno, e poi ancora il secondo. E ci togliemmo da Roma, che ci aveva
stancati entrambi. Affittammo una casa in pietra, in un paesello in montagna, e
lì, ridotte le necessità al lumicino, conducevamo la nostra esistenza da quasi
eremiti, con la speranza che nulla venisse a turbare l'orto botanico nel quale
ci piaceva vegetare. E poi arrivò la legna del camino, quella ammuffita, e il
fumo nero che scappava fuori e noi che ne ridevamo. Ridevamo della nostra
situazione da scombinati, da infanti fuggiti di casa. Da bambini chiusi in
camera che fanno giochi costruiti col materiale dei sogni, provocando
incredulità e tenerezza nelle facce dei parenti.
E alla fine
ci fu quella sera, quella del test di gravidanza. Quando mia moglie prese a
sorridere in modo strano, arrendevole. E io appresso a lei. A quel punto tutto
mi sembrò chiaro. Una autostrada spaccò il cielo, e qualcuno mi disse
all'orecchio... adesso sì che sei ciò che davvero devi essere. Al
terzo mese, come un fulmine a ciel sereno, dal ventre di mia moglie usci del
sangue. Me la caricai sulle braccia e corsi, dio come corsi, lungo la salita
che s'arrampicava fino alla cima del paese, in piena notte. Lei era bianca in
volto, e ancora sorrideva. La adagiai nella macchina, una vecchia Renault rossa
e ingrigita dall'incuria, e partimmo a motore sgranato per la strada
dissestata, verso il primo ospedale disponibile. Dopo appena tre chilometri il
motore sgranato si disintegrò del tutto, e la macchina ebbe due sussulti. Due
sussulti e una intensa bianca fumata dal cofano. E si fermò e non ne volle
sapere di noi, più niente. Bestemmiai una decina di santi. Ringhiai. Scesi a
spingere e raggiunsi il culmine del dosso che avevamo davanti. E la lanciai,
sperando di vincere la salita successiva, quella che immetteva al paese, col
semplice slancio. Con una semplice lezione di fisica del biennio alla
superiori. Quando lo slancio non fu sufficiente che a raggiungere la metà
di quell'erta, sempre ringhiando, scesi dal mezzo e abbracciai mia moglie.
La sollevai e tenendola stretta, col vento che a turbini di neve mi ghiacciava
la sciarpa, ricominciai a correre verso l'ospedale. Passarono tre macchine in
mezz'ora, e per mezz'ora e per tre volte, provai a fermarne almeno una. Ma i
motivi degli uomini non sono belli da verificare, e nessuno ci portò aiuto.
Quando arrivammo al pronto soccorso eravamo due fantasmi. Questo pensai spiando
il nostro riflesso nel portone a vetri aperto sul gelo e deserto reparto a
pianoterra. Mi sbagliavo. Di fantasma ce n'era solo uno. Da quel momento in poi
non ci fu più nessuna possibilità di tornare a sorridere. Ci inseguimmo, come
prima ci inseguivamo, ma come nemici, stavolta. Come se abbandonare Roma, come
se non fare manutenzione alla macchina, come se ridurre i bisogni, come se
sposarsi, come se decidere di non abortire, fossero non vita ma colpe, che
ognuno sentiva e cercava di scaricare sull'altro. Ci lasciammo alla metà
dell'estate successiva. Io tenni la casa. Lei il fantasma del nostro bambino.
La casa la
tenni, è vero. La comperai addirittura. Ma non ci rimasi a vivere. Mi ci
rifugiai a periodi per i successivi ventiquattro anni. Era un po' come farsi la
tana e poi viaggiare e cacciare, cacciare e viaggiare. Lunghe stagioni di
scorribande in cerca di carne per poi tornare. Che mi facesse bene o mi facesse
male tornare in quel luogo, davvero non lo sapevo dire. Intanto i giorni si
accumulavano sulle pareti, e i viaggi, e i fogli scritti, le foto e le
cartoline. I ricordi che raccoglievo nei miei giri da vagabondo condotti
appresso a spighe di grano maturo o cieli grigi in stazioni nere, lì dove il
vino cartonato era l'unico pass utile a trovare un senso umano al ferro dei
binari. Era un po' come negarsi alla morte. Era un po' come colorarsi la vita.
Era l'estremo sforzo della volontà, tirato come si tira il colpo al cardellino
prima di recarsi dal macellaio a comperare la cena. Io sono un uomo, dicevo.
Ma solo per sentito dire sapevo che era così. E nulla mi apparteneva.
Nei giri mi
accompagnava alle volte l'India, la mia vecchia cugina impicciona. Alle volte
mi accompagnava il vento. Alle volte ero talmente solo da riuscire a sentire
l'onda di ciò che sa essere umano. E non c'era nessun dettato, nessun tema,
nessuna freccia, nessuna indicazione sul selciato. C'erano vie, c'erano
strade, c'era la voglia di andare e niente altro che questo. Mi spinsi dove il
limite non è più, dove il senso a fermarsi non c’era. E tuttavia continuai a
tornare alla mia casa di montagna, come se ad attendermi ci fosse stato
qualcuno ogni sera. Come se, per quanto potessi cercarmi oltre i confini
dell'Oriente e della Terra, solo in quel posto qualcosa e qualcuno e me stesso,
mi stessero aspettando.
Con la casa
parlavo - altri non se ne vedeva quasi mai. Sì, alle volte salivano amici a
trovare il pazzo eremita. A drogarsi con me, a bere, a comperare ciò che dai
viaggi riportavo. A barattarlo con nocciole e miele. Con candele. Con benzina,
addirittura, quando ne avevo bisogno. Con la legna. E di notte mi piaceva, in
quei periodi così strani, scendere al villaggio e passeggiare. e contare quante
macchine passavano. E quante ancora non avrebbero voluto fermarsi. Così nei
miei viaggi facevo, allo stesso modo. Camminavo per lunghi tratti di statale la
notte. o sulle provinciali dei luoghi meno conosciuti. Ma solo in inverno. E se
dei fari alle spalle ingigantivano la mia ombra, coperto dal cappuccio
sorridevo, mi voltavo a tre quarti e alzavo il pollice.
La cosa che
meno capii in quel periodo, è come si possa tirare dritto di fronte a un uomo
che corre tra il vento gelato con in braccio una donna, e magari fermarsi
invece pochi metri più avanti di fianco a un incappucciato ramingo con le mani
nelle tasche. Cosa c'è nella testa degli uomini? Cosa c'è nello stomaco? Cosa
nelle budella? Cosa cambia in coraggio o incoscienza l'incuria e la solitudine?
Le mie mani ringraziavano il materiale di quelli che volevano offrirmene
frugandone le viscere, cercandone i resti di umanità penitente tra l'odore acre
che ha la pelle quando un coltello incandescente la solca. E nei meandri dell'ignoto
cercai a dismisura, e dentro di me anche, e con ogni mezzo. Furono anni seri,
da ricercatore indipendente. Furono gli anni in cui la vita sembra un fuoco
d'artificio, un terremoto, lava dalla bocca del vulcano. Nessuna previsione
utile. Come quando ti fottono la fortezza costata decenni di ruberie con un
semplice e improvvisato colpo di mano.
Adesso, a
doverlo raccontare, direi che fu più o meno in dicembre, e che i passi,
muovendoli sull'asfalto, mi rimandavano poche volte l'eco, e più segnatamente
si lasciavano intuire nei rimbombi. Nessuna macchina mi puntava addosso i fari
da due ore, ed ero in Umbria, anche se non so precisamente in quale delle sue
parti. Non faceva tantissimo freddo in quell'anno clemente.
E di strada
ne avevo fatta abbastanza, e non sapevo bene a che punto fossi del mio viaggio.
A doverlo raccontare, adesso, direi che mi accorsi di qualcosa già prima di saperne
parlare a me stesso. Che a un certo punto fu impossibile negarmelo, perché
il rumore degli anfibi al suolo si sdoppiò e a ogni passo sentivo due volte il
battito affrontare la polvere. Anche il cuore sentivo, ed ero sereno. Avevo
smesso le docce, come dicevo in principio, e la regolarità era tornata a farmi
da scudo. E anche il cuore, a un certo punto, cominciò a battermi nelle
orecchie raddoppiando il tempo. Un colpo nel petto, uno nel vento. Fu una
stella a distrarmi dai pensieri assenti. una stella luminosa sull'orizzonte. E
il rumore dei passi in sincrono coi miei... divenne un'ombra. E l'ombra una
sagoma. Un cappuccio, una felpa, due mani nelle tasche. Mi procedeva di fronte,
con gli occhi bassi. Non so dire se si fosse accorta di me prima che io di lei,
non glielo chiesi mai. So che ci guardammo da sotto il cappuccio, e che poi i
cappucci, quando fummo a due passi, fermi, calarono dietro le spalle. E che era
buio, e nel buio vidi i suoi spilli brillare di rosso. Come fosse un demone.
Come fosse l'angelo scacciato dal cielo. Era giovane, molto giovane, e non
sapeva neanche lei bene dove andare. Mi sorrise, da un altro mondo mi sorrise.
Perché siamo tutti un mondo a parte, un pianeta lontano da cui ci affacciamo a
guardare.
Anna aveva
18 anni all'epoca, praticamente una bambina. Passava le giornate sul tetto
della mia casa di pietra, a spiare la valle. Di sera salivo su dov'era, le
portavo la cena. E in silenzio guardavamo le macchine scorrere per le vie
tortuose, le osservavamo arrancare. Non parlavamo, lei di voce non ne aveva.
Aspettavo che mi indicasse qualcosa. Un punto, una striscia di terra, un
lontanissimo cantiere. Per tutto il periodo che rimase con me, fu la padrona
dei miei pensieri. I gesti davano seguito ai gesti. La memoria arrivava da
ogni oggi fino al massimo di un paio di ieri.
Facevamo l'amore in silenzio, come gatti afoni o come selvaggi in assenza di ossigeno.
I suoni non esistevano, semplicemente. La sua sordità era la mia.
Capitava di
guardarci nello specchio, al momento dell'amplesso, con i volti sfigurati. E
dalle bocche larghe l'aria passava e cadeva, come fiato blu gelato al contatto
con l'universo. Non più gas, non vapore, ma solo liquido, incapace a
raggiungere l'orecchio. Aveva poca carne sulle ossa Anna, poca carne sopra al
viso. E io l'amavo, come si ama il peso sopra al cuore quando è l'unica cosa
che ti faccia sentire vivo.
Svanì come
la rondine alla fine dell'estate, dopo un tempo incompleto e non facile da
limitare. E neanche da ricordare. Sparì come era arrivata, dal niente e sopra
il nulla. Negli occhi di mia moglie, quando venne a cercarmi coi fogli del
divorzio da firmare. Erano passati forse tre secoli da che se ne era andata, e
mi aveva talmente rimosso da non trovare igienico nemmeno separarsi da
me per esigenze legali, o almeno così avevo considerato. Sembrò assurdo mi
cercasse all'improvviso, è vero, ma non fui in grado di scindere la necessità
dal pretesto. Sentii nella sua voce disturbata un tremito, al telefono. Come se
dal cuore le mancasse un pezzo. E così ci demmo appuntamento, e io non seppi
guardarla in faccia. Avevo paura di trovarci ancora quel sorriso, quello antico
che mi aveva acceso, in cui mi ero smarrito. La spiai nello specchio
all'ingresso, quello intorno a cui avevo accumulato i giorni e i ricordi. Entrare
e poi uscire, la spiai. E notai la differenza. La differenza nel broncio e poi
nel volto disteso, la differenza tra il prima e il dopo. Il cambiamento di chi
ha perso il mondo, quando s'è di nuovo arricchito.
Sulle
scale, partendo, di colpo mia moglie si voltò per salutare. Mi fissò negli
occhi, mi sorrise. L'ultima volta che vidi Anna stava proprio lì dentro, cappuccio
calato, mani in tasca, di spalle nel riflesso dell'iride.
E adesso tu
mi parli di questioni di cuore, di nocciole e miele. Mi indichi il verso che
prendono le cose e mi chiedi se ci sono più amori possibili nella vita, oppure
se c'è un solo posto a sedere. Un unico approdo, un'unica spiaggia. E mi
arresti il respiro amica mia, perché non so nulla degli altri pianeti. So solo
dire quand'è che il vento libera dalle nuvole il sole, o quando soffia forte e
tutto ghiaccia.
hai sottolineato alla perfezione (senza volerlo) l'autentico, spontaneo sentimento dell'amore: poco, nullo suono
RispondiEliminala spontaneita' e' illibata. non soggiace a meccanismi consci o impropriamente forse anche detti volontari. ma volendo pensare, penserei che l'autenticazione del sentimento d'amore e' sempre e solo risolvibile in una autocertificazione... :)
Eliminaodio la burocrazia e quindi mi sembra il più riuscito sistema per vivere o sopravvivere a se stessi. Gli altri (i dirimpettai, i destinatari del nostro sentimento) potrebbero non accettarla o non considerarla sufficiente come documentazione, andar via o mandarci via. I fantasmi, del resto, potrebbero costituire presenze/assenze più gradevoli ;)
Eliminaevasione, petrolio-muso. e fuoco alle scartoffie. come si diceva dall'altra parte in fatto di dichiarazioni, meno uno ne fa, meno sara' ridicolo quando dovra' ritrattare... :) ps chi chiede documentazione, e' gia' un fantasma.
Elimina;) che dire? nulla… è un piacere dis-correre con te!
RispondiEliminail piacere e' reciproco, muso-petrolio. e a Cassandra sembri quasi una cugina.
Eliminaparentele acquisite migliori delle originali…
RispondiEliminase non altro se ne puo' dire che le abbiamo scelte. dovendosene un giorno lamentare, almeno non si dovrebbe imprecare contro il cielo. e non e' poco!
RispondiEliminaAzz..
RispondiEliminaeh... :P
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